La scorsa settimana il Presidente della FED, Jerome Powell, ha annunciato un cambio di strategia della Banca Centrale Americana: se prima l’inflazione target era del 2%, ora la Federal Reserve punterà ad avere livelli di inflazione più alti a compensazione di un’eventuale inflazione più bassa nei periodi precedenti.

Sino ad oggi (in realtà sino a un paio di decenni fa) le banche centrali utilizzavano la manovra del “tasso di sconto” per raffreddare un eccessivo surriscaldamento dell’economia, ovvero un eccesso di inflazione che, ricordiamolo, è l’aumento dei prezzi al consumo, quindi una sorta di “tassa” (passatemi il termine che è soltanto per semplificazione) che pesa marginalmente di più sui redditi medio/bassi. In buona sostanza quando l’economia accelera, va in euforia, i prezzi aumentano perché aumenta la domanda di beni: se aumenta la domanda di beni, aumenta il loro prezzo.

 

Tasso di inflazione e politica monetaria

Un breve ma importante inciso: l’inflazione è deleteria per i redditi medio/bassi, ma dall’altro lato è aria fresca per chi ha debito. Immaginiamo di aver contratto un mutuo a tasso fisso vent’anni fa per una rata mensile di 300 Euro; oggi, ipotizzando di avere un lavoro e non averlo mai perso in questi venti anni, quei 300 Euro avranno un peso inferiore sul mio bilancio familiare, essendo dall’altro lato aumentato il mio reddito per effetto delle spinte inflattive. Non solo, l’opposto dell’inflazione è la deflazione, ossia prezzi decrescenti, che sono un disincentivo al consumo: rimando l’acquisto di un bene n-volte perché domani comprerò ad un prezzo inferiore al prezzo odierno.

Ne emergono due prime conclusioni: l’inflazione è utile in un mondo iper-indebitato, in quanto svaluta il valore reale del debito, e l’inflazione ha un limite di tollerabilità e auspicabilità. In buona sostanza esiste un livello fisiologico di inflazione necessaria.

Da almeno una decina di anni (negli ultimi dieci anni l’evidenza del fenomeno è enorme) l’inflazione non cresce, nonostante l’enorme base monetaria in circolazione. Le banche centrali si sono inventate qualsiasi strumento per aumentare l’inflazione (e sostenere l’economia), ma questo non è bastato a farla crescere. Lo strumento dei tassi di interesse non è più il solo adottato dalle Banche Centrali, anzi direi che è ormai del tutto ininfluente. FED, BCE e BoJ acquistano titoli sul mercato e in contropartita immettono denaro, riducono in negativo il tasso di deposito, finalizzano operazioni di rifinanziamento targettizandole a che le Banche prestino denaro a imprese e famiglie. con l’aspettativa di creare inflazione e mettere in tasca a persone e imprenditori quel denaro per far “girare l’economia”.

 

Le ragioni “umane” e “finanziarie” dello scenario di bassa inflazione

Una considerazione del tutto personale che faccio è che questa difficoltà nella creazione di inflazione derivi, tra le altre cose, da tre importanti fattori, due prettamente umani e uno finanziario: l’incremento demografico mondiale, il grande sviluppo tecnologico nella catena della produzione/distribuzione e il difetto di capacità di trasmissione della politica monetaria, la cui responsabilità principale è del sistema delle banche commerciali.

Per quanto riguarda i fattori umani e sociali il ragionamento è questo: l’inflazione, ovvero l’aumento del prezzo di un bene, si crea quando la domanda supera l’offerta. L’elevata disponibilità di manodopera (conseguenza anche dell’incremento demografico), l’elevata mobilità geografica delle aziende e il livello di automazione della produzione fa sì che l’elasticità dell’offerta rispetto alla domanda sia particolarmente alta, in quanto ad un aumento della domanda le aziende sono in grado di rispondere con un rapido aumento della produzione, senza aggravi particolari del costo di produzione stesso. Questo dato si presta a doppia lettura, perché in realtà l’incremento demografico significa anche più potenziali consumatori, ma si tratta di incremento demografico in aree meno ricche del mondo, mentre dall’occidente le spinte deflazionistiche arrivano principalmente dall’invecchiamento della popolazione.

Per quanto riguarda i fattori finanziari, la realtà è molto semplice: la scarsa fiducia presente sul mercato fa sì che sia estremamente difficile concedere un prestito (si tratti di prestiti alle aziende o di mutui alle famiglie). L’alternativa – razionale dal punto di vista economico ma in aperta contraddizione con l’attività caratteristica del sistema bancario – è l’impiego dell’ingente liquidità proveniente dalle Banche Centrali non per l’attività di prestito, ma per operazioni sul mercato o operazioni di finanza aziendale. Le prime operazioni con collaterale concesse dalla BCE a favore del sistema bancario furono ad esempio utilizzate per richiamare sul mercato proprie obbligazioni ibride che avevano tassi elevati, con il fine di rafforzamento dei propri coefficienti patrimoniali. Ad oggi quel denaro viene utilizzato per operazioni finanziarie sui mercati. Le banche in buona sostanza si comportano come un investitore, dimenticando che la propria attività consista nel prestare denaro.

 

Come leggere l’atteggiamento della FED?

Concisamente e senza troppi giri di parole, le Banche Centrali stanno divenendo sempre più strumento di supporto alle politiche dei governi. Da un certo punto di vista ciò è comprensibile, perché è necessario raffreddare le preoccupazioni riguardanti l’enorme massa di debito (che la pandemia ha ingigantito ulteriormente), ponendosi come cuscinetto e acquistando quel debito. Dall’altro lato, cedendo alle pressioni dei governi, viene erosa una parte di indipendenza che è stata il fulcro di un secolo di economia occidentale. Sbaglia chi afferma che le sorti dei Paesi siano determinate da quanto operato dalle banche centrali, è semmai vero il contrario, perché veramente limitati sono ormai gli spazi in capo alle banche centrali, e sempre più forte è la pressione derivante dai Capi di Stato (Trump e le minacce di licenziamento rivolte a Powell qualche tempo fa ne sono un esempio).

Oggi gli spazi della politica monetaria si sono ristretti enormemente, e a guardare quanto accaduto nelle ultime settimane, verrebbe da semplificare affermando che ormai regolino unicamente il tasso di cambio (chiaramente non è così, ma nel frattempo ciò che accade in modo lampante ad ogni annuncio di politica monetaria della FED è un deprezzamento del dollaro). Le Banche Centrali faticano ad essere il cuscinetto nei periodi di recessione/surriscaldamento dell’economia, e il passaggio è storico perché necessariamente da quanto sta accadendo ne emergerà un mutamento di passo che non può che essere sottoscritto e condiviso su scala globale.

 

A livello di portafogli cosa accade?

L’annuncio di Powell ha portato ad un aumento dei rendimenti sulle lunghe scadenze obbligazionarie, in quanto le manovre di politica monetaria diventano in un certo senso più difficilmente interpretabili, e non è dato sapere quando si verificheranno, e su quali livelli di inflazione, la FED interverrà. Nel dubbio si vende la parte lunga. Dall’altra parte nel medio termine si attendono tassi bassi per un periodo piuttosto prolungato.

A livello di considerazioni generali, emerge che il debito è esposto a incertezza e potenziali volatilità. Se il classico mantra della costruzione di portafoglio vuole un 30% su azionario e un 70% su obbligazionario e da lì a salire con l’equity per incrementare il rischio quindi il potenziale rendimento, oggi la discussione deve essere ben più articolata, perché quel 70% che noi mettiamo a mitigazione del rischio è a sua volta rischioso, in quanto le brevi scadenze hanno rendimento nullo o negativo, le scadenze più lunghe rischiano di essere comprate a prezzi eccessivi, che scenderanno non appena verrà ritoccata la politica monetaria in senso più restrittivo.

Da un po’ di tempo a questa parte la sensazione che ho, che peraltro non si fonda su elementi immateriali, è quella di un progressivo spostamento dal capitale di debito al capitale di rischio. Pensateci: il debito non produce ricchezza ma per una parte la erode, il rischio potenzialmente sì, se ben gestito. Sebbene siamo seduti su una montagna di debito, quindi l’offerta di debito è alta (e il prezzo è sostenuto prevalentemente dalle Banche Centrali) oggi non hanno più la caratterizzazione di investimento in senso stretto i Titoli di Stato o le obbligazioni corporate, mentre lo hanno sempre più le azioni. Le banche posizionano l’ingente quantità di liquidità di cui dispongono non sui business plan di piccole/medie aziende, ma lo fanno attraverso veicoli societari che hanno più spesso la forma di un Private Equity con controllo ma delega del rischio e partecipazione condivisa. Lo fanno poi con un accesso diretto al mercato azionario. Stante gli scarsi rendimenti, le obbligazioni tradizionali perdono sempre più terreno a favore di strumenti strutturati come covered warrant, certificate, aggregati di attivo, ABS, CoCo Bond, che sono più spendibili a livello commerciale, ma che se vogliamo sono meno decifrabili a livello di investimento.

In questa parentesi finanziaria, in attesa che i sistemi automatici di trading smettano di farci porre delle domande e ci dicano “fidati e basta” (tanti i miei dubbi in merito), costruire il portafoglio deve necessariamente essere un esercizio di rottura di schemi mentali precostituiti, partendo dall’assunto che persino il posizionamento in liquidità non significa più semplicemente “lasciare i soldi sul conto corrente”, ma fare della gestione obbligazionaria uno strumento in tal senso, poi quando i tassi dovessero ripartire si valuterà.

Ho messo tanta carne al fuoco, e riprometto di approfondire ulteriormente alcuni argomenti trattati, ma ci tenevo a porre intanto alcuni punti fermi rispetto a cosa significhi la politica monetaria oggi e come questa debba necessariamente far ritrattare il nostro modo di essere investitori.

Nota di servizio: la foto che vedete l’ho scelta perchè l’ho scattatata esattamente quattro anni fa a Wall Street, davanti la sede della Borsa di New York, e con un po’ di nostalgia di quella città, mi sembra calzi rispetto l’articolo!

 

Luca Giordani

 

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