Difficile scrivere un commento a quanto sta accadendo a livello economico e finanziario. Difficile descrivere quanto accade a livello geopolitico, politico e sociale. Non voglio sottrarmi, ma è estremamente complesso, e faticosamente provo ad abbozzare un qualcosa che rischia di essere sbagliato. Ancor più difficile se considero che è un po’ che, per mancanza di tempo, su questa pagina non pubblico qualcosa

Credo ci sia solo una via per non sbagliare, per me che intendo scrivere qualcosa per comprendere il contesto economico attuale, ed è quella di attenersi ai numeri, e non a sentimenti di pancia, percezioni, sensazioni, ancoraggi. Ecco, allora proviamo a partire dai numeri.

 

L’inflazione: la grande dimenticata dell’ultimo decennio

Fa sorridere oggi quando pensiamo al Giappone, che per una vita ha rincorso un’inflazione che stentava a palesarsi. Ci chiediamo: ma come, è positivo che i prezzi crescano? Ogni volta che vado a fare la spesa è un salasso, com’è che l’inflazione non cresce? Il caso del Giappone è emblematico: le motivazioni antropologiche di quell’inflazione estremamente bassa, ove non era deflazione, erano da ricercarsi nella paura. Paura del futuro, di una società che andava progressivamente invecchiando, e che risparmiava per un futuro incerto dove le pensioni non erano garantite. Qualche anno fa la politica economica del Paese si concentrò sul target di inflazione al 2%, e per farlo si concentrava su un aumento della spesa pubblica (pensa che strano, un aumento della spesa pubblica che veniva da un governo di destra), con un incremento notevole di deficit e debito (già enormemente alto).

Oggi possiamo dire che all’opposto le ragioni dell’inflazione siano il coraggio e l’entusiasmo? A tutti gli effetti no. L’inflazione ha due scaturigini, esattamente opposte: la domanda e l’offerta. L’inflazione da domanda viene dall’esplosione di consumi verificatasi a seguito delle chiusure del COVID, trascinata enormemente dall’espansione fiscale (e conseguentemente monetaria) operata dalla maggior parte degli Stati, che ci ha consentito di passare più o meno indenni da un virus di portata mondiale. L’inflazione da offerta trova invece le sue origini da un incremento dei prezzi delle materie prime, e ha due cause principali: l’esplosione della domanda e il conflitto in Ucraina.

Come ho più volte detto, sbaglia a mio avviso chi pensa che l’incontrollato aumento dell’inflazione sia stato sottovalutato da parte delle banche centrali (principalmente Fed e BCE). Penso al contrario che sia stato tollerato per svalutare i debiti pubblici cresciuti enormemente come conseguenza dell’espansione fiscale. Non dimentichiamo infatti che il debito, quando c’è inflazione, perde valore esattamente come perdono potere d’acquisto le famiglie e le imprese. Il vero errore delle banche centrali sta nel non aver identificato il momento opportuno nel quale intervenire, motivo per cui l’inflazione tollerabile di circa il 6% è stata quasi doppiata.

L’aumento dei tassi di interesse, stoltamente criticato da politici incapaci, lo vediamo riflesso in due elementi: il costo dei prestiti (mutui in primis) e calo degli investimenti. Quest’ultimo elemento è stato meno marcato, in quanto il risparmio cumulato nei periodi di COVID e le facilitazioni fiscali hanno parzialmente contenuto il ricorso al debito privato (come contropartita di un aumento del debito pubblico).

Nel grafico qua sotto, estratto dal World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, porta evidenza dell’eccesso di risparmio privato nelle economie avanzate.

Fonte IMF . World Economic Outlook – 2023 October

Ma dopo la cura da cavallo, dove si trova l’inflazione? Di seguito il grafico estratto dal WEO del FMI.

Fonte IMF . World Economic Outlook – 2023 October

Dal grafico si nota come l’inflazione non abbia un andamento costante, ma i trend dapprima crescenti e poi decrescenti si intuiscono piuttosto bene. I dati delle ultime due settimane rispetto all’andamento dell’indice dei prezzi sono incoraggianti, e i mercati già scommettono su una fine della restrizione monetaria.

 

Il debito pubblico, il grande protagonista

Non c’è tanto da dire circa il debito pubblico, se non osservare la dinamica di crescita. Ho la mia personale idea circa il fatto che il debito pubblico vada a supplire le inefficienze di un sistema che non sono soltanto economiche, ma sociali. E’ mia personale idea, infatti, che questo nuovo millennio sia caratterizzato dalla forzatura dei consumi per mantenere in equilibrio la circolarità del sistema economico (secondo il paradigma incremento dei consumi – incremento dell’occupazione). Nei primi anni 2000, dopo lo scoppio della bolla tech e con il susseguirsi delle guerre in Afghanistan e Iraq, la politica della Fed di Greenspan si orientò infatti a favorire gli investimenti soprattutto nel settore immobiliare. Le conseguenze nefaste di una simile politica le conosciamo tutti, essendo il sistema giunto ad un punto di non equilibrio con una insostenibilità del debito privato e tutta la spazzatura finanziaria sparsa per il mondo.

Nel grafico qua sotto riporto l’esplosione del debito privato detenuto dai privati negli Stati Uniti sotto forma di titoli per il decennio 2000 – 2011.

Fonte St. Louis FED

Nel grafico sotto riporto invece il rapporto debito/PIL per gli Stati Uniti.

Fonte: St. Louis FED

Quello che è a mio avviso interessante osservare è come nel primo decennio del ventunesimo secolo si sia assistito ad un aumento del debito privato in percentuale sul PIL e, come in una staffetta, questo debito privato si sia invece “trasferito” sul debito pubblico. E’ stata necessaria una crisi per comprendere l’insostenibilità del sistema circolare produzione – consumo, ma non è sufficiente (e qua esuliamo dalle ragioni economiche per sconfinare nelle ragioni sociologiche, psicologiche e biologiche).

Lasciando da parte per la UE il discorso debito privato per concentrarsi sul rapporto debito PIL, osserviamo anche in questo caso l’esplosione del debito pubblico, specialmente dopo la crisi dei debiti sovrani e a seguito dell’emergenza pandemica.

Fonte: ECB

Insomma, per farla breve, l’elevato debito pubblico è una componente ormai consolidata degli stati avanzati per una serie di ragioni: il progressivo invecchiamento della popolazione per effetto del calo delle nascite, il maggior costo del lavoro e del sistema di coperture sociali.

Il COVID non ha fatto altro che contribuire all’incremento del debito pubblico, che sarà a mio avviso un compagno di viaggio con il quale fare i conti.

 

Crescita e PIL: la grande fatica

Per rendere sostenibile il debito c’è una sola via: crescere. La via per crescere è investire, perché fino a prova contraria non è ragionevole richiedere un prestito per comprare i biscotti per la colazione.

Un’altra via per rendere sostenibile il debito è accettare una svalutazione del debito: o l’ormai famoso haircut, per il quale i detentori di debito si vedono decurtata una parte del proprio debito, o l’inflazione. Un’inflazione elevata sarebbe sostenibile unicamente in un sistema estremamente ricco, avendo un peso marginale inferiore per i redditi più alti, ma qualcosa non tornerebbe a livello aritmetico e anche logico.

E’ chiaro quindi che non esiste alternativa alla crescita (secondo il modello circolare produzione – consumi).

La crescita è dipendenza diretta, in ultima battuta, di un fattore emotivo: è direttamente proporzionale alla fiducia. Dello scenario attuale tutto si può dire, tranne che sia ispirazione di fiducia.

Se però ci concentriamo sui dati, notiamo come le avvisaglie di recessioni ravvisate a inizio 2023 si siano progressivamente assottigliate. Non significa le cose stiano andando bene, ma quel marcato rallentamento che tanto si temeva si è verificato soltanto in un Paese occidentale: la Germania, che aveva fatto troppo affidamento sui costi energetici bassi che le garantiva la Russia.

Nella tabella qua sotto riporto i dati passati, presenti e le proiezioni per il 2024 del Fondo Monetario Internazionale circa il PIL (oltre ad altri indicatori).

Fonte IMF . World Economic Outlook – 2023 October

Per l’area Euro è atteso il prossimo anno un incremento del PIL, mentre lo si prevede stazionario negli Stati Uniti. Quest’ultimo dato risentirà indubbiamente del venir meno di una serie di stimoli fiscali (il deficit/PIL Usa si approssima attorno all’8% per quest’anno). Il contributo alla performance positiva del PIL Europeo rispetto al 2023 viene reso positivo dall’aumento di Francia e Germania, e fiaccato dal calo spagnolo e dalla neutralità dell’Italia. A riassunto il PIL mondiale calerà dal 3% al 2,9%, anche qua con un pesante decremento della Cina dal +5% del 2023 al 4,2% previsto per il 2024, mentre il grande motore rimane l’India con il suo +6,3% di quest’anno e del prossimo.

 

Qualche considerazione

Le mie considerazioni difficilmente si distaccano dalle precedenti, per quanto fatte ormai qualche mese o anno fa. Ciò che a me ha sorpreso nell’ultimo anno, lo ripeto, era la reazione positiva dei mercati finanziari a qualsiasi notizia macroeconomica negativa. Io ritengo questo un paradosso non positivo, sintomo di una malattia di fondo ben chiara: la malattia dei tassi bassi. Tale e tanta è stata la droga dei tassi bassi dell’ultimo decennio che l’assuefazione del sistema è ancora alta, e il rischio di far dipendere il sistema dal debito (per quanto già in gran parte ne dipenda) è consistente. Il paradosso si fonda sulla fame di liquidità e leva finanziaria dell’intero sistema finanziario, leva o più propriamente debito che giocoforza si trasferisce sul sistema delle finanze pubbliche in prima battuta, e in seconda battuta sulle tasche dei consumatori sotto forma di inflazione.

Ciò che ritengo importante evidenziare è il quadro di grande confusione che domina le politiche nazionali e internazionali, non ultimo il sistema delle relazioni commerciali. Non si può pensare di prescindere da qualsivoglia valutazione politica quando si tenta di formare le proprie aspettative sul futuro. Ecco che allora non si può non tenere in considerazione il fatto che il prossimo anno è un anno elettorale per gli Stati Uniti, impegnati su più fronti militari non tanto a riaffermare la propria forza militare sul mondo, quanto per mantenere un equilibrio rispetto alle politiche passate. Sembra del tutto chiaro come gli Stati Uniti non vogliano imbarcarsi in guerre al di fuori dei propri confini, considerato l’ampio scollamento al proprio interno, demandando alla NATO ogni ricomposizione dei conflitti pur rimanendo un timido deus ex machina. Risulta a mio avviso evidente come ci sia chi pensa di poter approfittare della situazione, e come in un qualche modo la geografia economica sia comunque impegnata in un importante mutamento.

Dai numeri, e soprattutto di pancia, a me par di intuire tuttavia un riposizionamento al vertice degli Stati Uniti, che riacquisiscono una supremazia non tanto militare, ma politica. Si candidano infatti a essere i capofila, con l’intento espresso di esserlo, del mondo liberale. Un liberalismo meno dipendente dal liberismo economico, ma più ideale, contrapposto ad una parte del mondo che non si accoda a questo modello, ma secondo uno schema imperiale mira a far prevalere ancora la forza militare prima ed economica poi (come conseguenza della forza militare) su un modello di benessere in senso stretto.

Al netto di esiti elettorali infausti, quindi, ciò che mi aspetto, con una probabilità di errore elevata quanto la speranza, è che l’economia americana riscoprirà una nuova fase di crescita. E sarà una crescita naturale e non imposta. Dall’altra parte la Cina, che dal suo PIL dipende, e che per tornare a ritmi sostenibili di crescita dovrà forzare la mano sui diritti. In tutto ciò la grande assente è l’Europa, che col suo ordine sparso non ha ancora compreso l’importanza di presentarsi uniti alla sfida del nuovo mondo.

Questi auspici sono lontani da venire, nel frattempo ci troviamo in una fase molto confusa, che necessità di una nuova stagione, ma prima che vi si arrivi è probabile debba accadere qualcosa, sto ancora cercando di capire su quale fronte.

 

Gli investimenti finanziari: la grande sofferenza

La sofferenza reale sta nel capire come si muovono gli investimenti. Teniamo a mente due punti fermi:

  • Più vogliamo fare previsioni a breve più sbagliamo. Se ad esempio decidessimo di investire sull’indice americano a un anno avremmo il 54% di probabilità di guadagnare e il 56% di perdere. Se invece allunghiamo l’orizzonte temporale di investimento a 5 anni la probabilità di guadagnare si alza all’86%, con solo un 14% di probabilità di perdita.
  • Il rialzo dei tassi è stato estremamente rapido e consistente, ma dimentichiamo sempre un fatto fondamentale: proveniamo da un decennio di tassi medi al di sotto dell’1%, oltre a un allentamento monetario che mai si era verificato. Detto ciò, l’obiettivo di riduzione dell’inflazione (un’inflazione realmente fuori controllo) è stato raggiunto. Possiamo quindi dire che i tassi reali sono in questo momento più bassi dei tassi nominali. Per comprendere questo concetto riporto l’ultima delle figure statistiche di questo approfondimento. In questa figura viene rappresentata la distanza tra tassi delle banche centrali e inflazione attesa (di fatto il tasso reale di interesse). Come si può notare, fino a circa metà 2022 i tassi nominali erano notevolmente inferiori rispetto all’inflazione attesa, mentre questa distanza è andata riducendosi da metà 2022 per poi arrivare a metà 2023 con un tasso di riferimento maggiore dell’inflazione. Si può anche notare, tuttavia, come le aspettative si formino attorno ad un atteggiamento prudente delle banche centrali, che manterranno i tassi di riferimento maggiori dell’inflazione per consentire una effettiva stabilizzazione dell’inflazione per poi tornare a convergere in modo più marcato dal 2025.

Fonte IMF . World Economic Outlook – 2023 October

Sulla base di quanto scritto in precedenza, in questo momento i tassi di interesse si troverebbero quindi nell’intorno del loro massimo. Se seguiamo questo ragionamento, il rendimento dei titoli obbligazionari è al suo massimo. Questo significa che in questo momento l’obbligazionario è a sconto e in una fase di normalizzazione dei tassi si potrebbe assistere ad un rebound importante.

Sul fronte azionario le previsioni sono un po’ più complesse perché vanno tenuti in considerazione alcuni fronti: l’evoluzione della situazione internazionale, l’effetto ritardato del rialzo dei tassi sulla dinamica degli investimenti, il rientro del deficit statunitense abbinato all’anno elettorale, il prezzo delle materie prime per effetto della transizione energetica. Insomma, c’è di che ragionare.

Quello che credo con ragionevole certezza che si verificherà sarà una decorrelazione importante tra obbligazioni e azioni, seppur circoscritta ad una finestra temporale breve, per poi tornare a convergere. Le future notizie sul fronte macroeconomico potrebbero quindi tornare ad assumere il loro valore “naturale”: notizia buona borsa su, notizia negativa borse giù e obbligazionario su. Ripeto però che questa decorrelazione la ritengo temporanea, perché l’intero sistema economico è ancorato alle decisioni di politica monetaria, e quindi le ragioni che hanno portato al rialzo dei tassi e al calo dei mercati saranno le stesse che porteranno al calo dei tassi e al rialzo dei mercati.

Mi sento quindi di guardare con più fiducia ai mercati finanziari, anzi accolgo come notizia positiva la celebrazione del funerale dell’acronimo TINA (There Is No Alternative), perché con i rendimenti delle obbligazioni tornati in positivo c’è la possibilità di tornare a fare un’asset allocation interessante.

 

Conclusioni

Le conclusioni saranno brevi: il momento è difficile, sul fronte politico e internazionale ancor prima che economico. Ho scorto una riassunzione di valore di quanto usciva dal Palazzo di Vetro, e credo che questo gran intorbidimento che stiamo vivendo possa portare ad un miglioramento. Lo ripeto: l’economia altro non è se non la lettura razionale dei numeri espressione del comportamento della società. In tutti i numeri passati sono inscritti i grandi patemi del nuovo millennio, esattamente come nei numeri di oggi e in quelli futuri.

 

Luca Giordani

 

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